Libretto:Il Sant' Alessio (Giulio Rospigliosi): Unterschied zwischen den Versionen

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Aktuelle Version vom 16. Juli 2010, 15:38 Uhr

Werkdaten

Autor

Giulio Rospigliosi (1600-1669)

Enstehungsgeschichte

Text

Gattung

Oper in drei Akten

Handlung

Text

Vertonung

Besetzung

Roma, Prologo

Eufemiano, Padre di S. Alessio

Adrasto, Cavaliere romano

S. Alessio

Sposa

Madre

Nutrice

Marzio

Curzio, paggi

Angelo

Religione

Demonio

Nunzio

Choro di Schiavi

Choro di Domestici d'Eufemiano

Choro di Angeli

Choro di Demonij dentro alla scena

Choro di Demonij

Choro di Contadini

Choro di Giovani Romani

Choro di Virtù, che ballano


Libretto

Prolog

Sinfonia per introduzione del Prologo. A tre Violini, Arpe, Lauti, Gravicembali, Tiorbe, Violini e Lira. Si fa prima di calar la tenda.


Choro de' Schiavi, Roma.

Roma, sopra un Trofeo di spoglie circondata da diversi Schiavi, dopo aver sentito le lodi del Serenissimo Principe Alessandro Carlo di Polonia, il giubilo comune per la venita di S. Altezza, risolve di rappresentarle i casi di S. Alessio, quale tra i suoi Cittadini fu non meno conspicuo nella gloria della Santità, di quello che fossero molti nel valore dell'armi. E per accennare, come ella stima più d'ogni altro dominio l'esser Regina de' cuori, ordina che i medesimi Schiavi rimangano liberi dalle catene. Nello sparire della tenda si scopre Roma in un Teatro sopra un foglio fabricato d'armi e d'insegne diverse. A piedi d'essa un coro di Schiavi, che cantano i versi seguenti.

CHORO DE' SCHIAVI.

   Chiaro giorno, lieta sorte,
   ecco n'adduce.
   Nuova luce hoggi splende
   al Tebro intorno.
   D'honor lampi e lumi egregi
   d'Alessandro sono i pregi
   che diffonde in ogni lido
   eccels' il nome
   e glorioso il grido.

QUARTO SCHIAVO.

   Ei di rara virtute
   nutre in petto regal
   desiri ardenti,
   e in giovinetta etate
   tesse le palme alle corone aurate.

TERZO SCHIAVO.

   Egli di varie genti
   va mirando i costumi
   e il modo ammira
   negli atti suoi regali
   meraviglie Forane, opre immortali.

QUINTO SCHIAVO.

   Già mirasti, o Reina,
   il forte Vladislao,
   che de Barbari indomiti e feroci
   l'alta fierezza ha doma,
   il soglio riverir del grand Urbano;
   hora al nobil Germano,
   a cui palme simili il ciel destina
   fa lieta al suo venir l'onda latina.

CHORO DE' SCHIAVI.

   De gl'Heroi ceda a lui
   l'antica schiera.
   Lode vera non si nieghi
   ai vanti suoi.
   D'honor lampi e lumi egregi
   d'Alessandro sono i pregi,
   che diffonde in ogni lido
   eccels'il nome
   e glorioso il grido.

Ritornello strumentale. Questo ritornello si replica fino che Roma discende dal Trono e comincia a cantare.

ROMA.

   Roma son io, ch'il soglio
   di trionfi e di prede
   ornai sul Campidoglio.
   Quella son io,
   che già calcai col piede
   de' miei famosi eroi
   i campi Mauritani, e i lidi Eoi.

Ritornello strumentale.

ROMA.

   Né fur solo i miei figli
   chiari nelle contese
   dell'armi e de' perigli.
   Ma molti han compiuto
   vie più chiare imprese
   dietro all'orme di Cristo
   per di più stabil Regno
   eterno acquisto.

Ritornello.

ROMA.

   Tra quei, che per cotanto
   valore il Cielo accoglie,
   suona d'Alessio il vanto.
   Ché, se celato entr'alle patrie soglie
   sì fe' vile e dimesso,
   quanto ignoto ad altrui,
   noto a se stesso.

Ritornello.

ROMA.

   Presso alle pompe, agl'agi,
   sprezzò ciò ch'altri apprezza
   ne' fastosi Palagi,
   e ne lasciò l'invitta sua fermezza,
   ond'altri esempi e rari
   d'humiltà, di costanza il mondo impari.

Ritornello.

ROMA.

   Hoggi su queste scene
   con musici concenti
   lo riporta Hippocrene:
   e de' congiunti suoi
   gl'aspri lamenti
   faran, con meste note,
   ch'alcun bagni di lacrime le gote.

Ritornello.

ROMA.

   Il non mostrar pietade
   all'altrui gran dolore
   sarebbe crudeltade.
   Dunque se qui tra voi
   si trova un Core
   cui pianger non aggrada
   homai cangi pensiero,
   o lungi vada.

Ritornello.

ROMA.

   Regal giovinetto,
   ch'io riverente inchino,
   qui volgi il chiaro aspetto
   e non sdegnar nel lungo tuo cammino
   entro a confin remoto
   i casi udir d'un Peregrin devoto.

Ritornello.

ROMA.

   Ma, se tanto son vaga
   mostrar in mille modi
   la pietà che m'appaga,
   sciolgansi pur delle catene i nodi,
   ché vogl'io, non severo,
   solo ne' petti
   un mansueto impero.

Ritornello.

SESTO SCHIAVO.

   Se libera è la ...
   indissolubil nodo ordisce amore.

Ritornello.

CHORO DI SCHIAVI.

   Là, fastosa guerriera,
   donasti i nostri petti.
   Hor dedicato à Cristo,
   spiegando della Croce il gran Vessillo.
   Con impero tranquillo,
   vincitrice adorata,
   a lieti voti
   reina sei de' nostri cor devoti.


Erster Akt

Erste Szene

Eufemiano, Adrasto.

Eufemiano, senator romano e padre di S. Alessio, incontratosi con Adrasto Cavaliere romano, nuovamente venuto dalla guerra, si rallegra del suo ritorno; ed entrando a discorrere dei casi di Alessio, piglia occasione di raccontargli la partenza di lui seguita molti anni prima; e mentre si querela di tale avversità, è con particolare affetto compatito e consolato da Adrasto.

EUFEMIANO.

   Dopo tanti anni al fine
   pur tu ritorni, Adrasto,
   e nel patrio confine
   riponi il piè
   con generoso fasto.
   Di mille palme e di trionfi altero
   felice al fin tu riedi,
   onde festoso
   hoggi il mio cor t'accoglie;
   così 'l Ciel sia propizio
   alle tue voglie.

ADRASTO.

   Questi segni d'affetto e questi voti
   merita l'amor mio; quindi è ch'io provo
   nel rivederti il mio gioir maggiore.
   Ma pur insieme in me si turba il petto
   poiché teco non trovo,
   per mio destin crudele,
   Alessio tuo diletto
   tra miei fidi compagni il più fedele.

EUFEMIANO.

   Acerba rimembranza.
   Il Ciel non vuole
   ch'io consoli i miei danni
   sul tramontar degli anni
   con l'amata mia prole.
   Così le mie sventure io piango
   e solo io chieggio a tutte l'hore
   che se termin al duolo
   altro non è prescritto
   dia la morte rimedio al mio dolore.

ADRASTO.

   A generoso core
   Eufemiano invitto,
   tra le miserie il suo valor non manca,
   anzi più forza apprende
   tra l'humane vicende.
   E s'è pur ver che nelle doglie estreme
   aura dolce di speme
   le lagrime rasciuga
   e il cor rinfranca
   non mai prenda conforto
   la sollecita mente,
   ché di speranza a te novelle io porto.
   All'hor ch'in oriente
   nobil vaghezza d'armi il piè ritenne
   di rincontrar m'avvenne
   i servi tuoi fedeli,
   che, non lasciando in ciò consiglio ad arte,
   sollecitati cercaro
   ove si celi
   il tuo smarrito figlio
   in ogni parte.
   Intesi poscia
   (e non sia vano il grido)
   che da lontano lido
   a rimirar la Palestina inteso
   di Santo zelo acceso
   era là giunto un pellegrin devoto,
   a cui largo sue grazie
   il Cielo infonde.
   Et era forse quegli Alessio ignoto?
   Partito ei di repente,
   il seguiro i tuoi messi
   certo sperando, ov'egli a lor s'appressi
   che ben tosto in quei liti
   come sì caro al cielo,
   il ver m'additi. Ma non più udito,
   e molto strano in vero
   fu d'Alessio il pensiero.
   Né comprender si può
   qual cura, o voglia,
   a lontano sentiero
   il richiamar dalla paterna soglia.

EUFEMIANO.

   E così appunto Adrasto,
   il suo partir inopinato e nuovo
   fu sol per mio martire.
   Altra cagion del suo partir non trovo.
   Era la notte, ahi notte a me fatale,
   in cui sperai ch'ei rimanesse avvinto
   con nodo maritale.
   Quando egli (ah figlio)
   a dipartirsi accinto,
   senza punto curar la data fede,
   occulto trasse in altra parte il piede.
   Né tra' quell'ombre, al suo fuggir feconde,
   discoprir lo potea
   la face d'Imeneo.

ADRASTO.

   Gran meraviglia in vero
   ch'oggi pur non si sappia ov'ei s'asconde.

EUFEMIANO.

   E tra cotanti, ch'io già spedii d'intorno,
   sollecitando il piede
   con prodiga mercede,
   altri fece ritorno,
   togliendomi ogni speme
   del desiato avviso,
   senz'Alessio tornare altri non volle.
   Così non m'è concesso
   per volger d'anni,
   o per girar di stelle,
   del mio figlio più certe udir novelle.

ADRASTO.

   O disperato affanno.
   La fama che sovente
   non che le voci e' l'opre,
   anco i pensier discopre,
   in questo suolo al fin
   tace a tuo danno,
   o degno di pietà, Padre dolente.

EUFEMIANO.

   Lasso, da indi in poi la notte e 'l giorno
   risuonò l'Aventino ai miei dolori.
   E nel partire e nel tornar del sole
   la perduta mia prole
   chiamai con voci languide e tremanti.
   Il Tebro udì, pietoso de' miei pianti.

ADRASTO.

   Il non sapersi
   in quale fortuna
   Alessio or viva
   accresce il male.

EUFEMIANO.

   Ah sapessi pur io, sapessi al meno,
   qual duro sasso accoglie
   entro al gelido seno
   le sospirate spoglie!
   Colà n'andrei, colà morrei felice.
   Ma già sperar cotanto a me non lice.
   Vuole il Ciel ch'io sospiri in ogni loco
   e sfoghi in ogni loco i miei lamenti,
   stimando che sia poco s'è prescritta
   una tomba a miei tormenti.

ADRASTO.

   Il ciel pietoso
   i tuoi dolor consoli,
   ché ben merta pietade
   in tormento sì grave
   la tua canuta etade,
   Dio ti darà conforto.
   E spero ben ch'in breve
   ei n'aprirà delle miserie il porto.


Zweite Szene

S. Alessio.

Contemplando S. Alessio la vanità degli huomini e la caducità delle cose mondane desidera di esser libero dalla Carcere del Mondo e perciò ricorre a Dio con l'orazione:

S. ALESSIO.

   Sopra salde colonne erger, che vale
   eccelse mura alle caduche spoglie,
   se poca terra al fine in se n'accoglie?
   O desir cieco, o vanità mortale,
   o dal senso ingannati
   e dal diletto
   lusingati desiri,
   io per me trovo
   sotto alle patrie scale
   angusto sì,
   ma placido ricetto.
   Qui soggiornando i sensi,
   a contemplar sovente il pensier muovo
   del cielo i regni immensi.
   E spero ben,
   che questa ov'io mi copro
   sarà scala al Fattor,
   s'io ben l'adopro.

Arietta ad una voce.

   Se l'ore volano,
   e seco involano
   ciò ch'altri ha qui,
   chi l'ali a me darà
   tanto ch'all'altro polo
   io prenda il volo,
   e mi riposi là?

Sinfonia.

Segue S. Alessio. Arietta ad una voce.

   Nel mondo instabile,
   altro durabile
   ch'il duol non è.
   Chi l'ali a me darà,
   tanto ch'all'altro polo
   io prenda il volo,
   e mi riposi là?

Ritornello come sopra.

   Quei rai che splendono
   qui l'alme offendono.
   Né serban fé
   chi l'ali a ...

Ritornello come sopra.


Dritte Szene

S. Alessio, Marzio, Curzio, Paggi.

Marzio e Curzio, paggi d'Eufemiano, col vedere S. Alessio, stimato da loro un forestiero mendico e per carità alloggiato in quel palazzo, non lasciano di schernirlo ascoltati da S. Alessio con umiltà e sofferenza. Arietta a due voci.

CURZIO E MARZIO.

   Poca voglia di far bene,
   viver lieto, andar a spasso,
   fresco e grasso mi mantiene.
   La fatica m'è nemica.
   E mentr'io vivo così,
   è per me fest'ogni dì.
   Di ri di ri di ri ...
   vada il mondo come vuole.
   Lascio andar, né mi molesto.
   Tutt'il resto son parole.
   Pazzo è bene da catene
   chi fastidio mai si dà
   per saper quel che sarà.
   Di ri, di ri, ecc.

CURZIO.

   Ma colà mesto e solitario io vedo
   quel pellegrin, mendico,
   ch'in questo albergo il mio Signor mantiene.
   e per quanto io vi credo,
   per nostro gusto il tiene,
   ch'ei quasi è mentecatto
   honora chi l'offende,
   né s'altri la disprezza
   a sdegno il prende.
   Però qualunque volta in lui m'abbatto
   hor con opre il dileggio
   hor con parole.
   E quasi folle al par di lui divento,
   perché ben dir si suole
   ch'un matto ne fa cento.

MARZIO.

   Deh, qual mordace cura
   t'offende, e per qual duolo
   porti la fronte oscura,
   onde qui te ne stai tacito e solo?

S. ALESSIO.

   Che altro far poss'io, vile e dimesso?
   Io che son della terra inutil pondo,
   di mille colpe impresso;
   poi ch'altro non so far
   fuggo e m'ascondo.

CURZIO.

   Non trattiam di fuggire,
   ché quella fuga sol gloria richiede
   che si fa con la voce e non col piede.

MARZIO.

   Se vuoi mostrarti intrepido e sicuro,
   odi che far dovresti.
   Già si tocca, si tocca tamburo.
   Andiam a pigliar soldo, agili e presti.
   E con la piuma alteri,
   tosto fatti guerrieri,
   passeggiarem con maestade il campo.

S. ALESSIO.

   A che cercar in terra
   di nuove guerre inciampo
   se la vita mortale
   anch'essa è guerra?

CURZIO.

   Discorsi cotant'alti
   io per me non intendo.
   Ma molto ben comprendo
   che da nemici assalti,
   tu sei stato chiarito
   però fuggì l'invito.

MARZIO.

   Costui, per dirne il vero,
   alle parole, all'abito, al sembiante,
   mi sembra un soldato,
   che, già deposto il minacciar primiero
   ritorni svaligiato.

CURZIO.

   Se vuoi parer valente altro bisogna.
   Ma tu gloria non curi o gran vergogna!

CURZIO E MARZIO.

   O gran vergogna!

MARZIO.

   In vero io tel confesso:
   quand'io ti sono appresso,
   sempre voglia mi viene
   darti la turba, in fede mia, ma taccio.

CURZIO.

   Tu che sei sì codardo
   con sollecito piè,
   con umil guardo,
   di qui sgombra e t'invola
   e senza più tardar prendi altra via.

CURZIO E MARZIO.

   Vada, vo signoria.


Vierte Szene

Demonio. Choro di Demoni dentro alla scena. Un altro Choro, che balla. Sollecitato il Demonio da i cori infernali, che promettendo gran vittoria, fanno allegrezza con Balli si mette all'impresa di tentare e sedurre la costanza del Santo.

Si muta la scena in un inferno e nella lontananza si rappresentano le pene dei dannati. Si canta l'aria che segue, e da un coro di demoni è accompagnata con diverse mutanze.

   Si disserrino
   l'altre porte
   della morte.
   Su su su su.
   S'atterrino
   d'Alessio i pregi
   alle prede, alle palme,
   ai vanti, ai fregi.
   Più non durino
   le bell'opre
   ch'ei ne scopre,
   se si oscurino
   suoi fatti egregi.
   Alle prede, ecc.

DEMONIO.

   Alla notte profonda,
   ove correndo il torbido Acheronte
   unisce con terror la fiamma e l'onda,
   pur hoggi ergo la fronte
   a' cenni mosso del tartareo duce,
   mal mio grado a mirar l'aurata luce.
   Ché se ben delle stelle
   noi già dall'alto Regno
   fulminate cademmo, alme rubelle,
   restando il vano ardir vinto e deluso,
   non ancora però spento è lo sdegno;
   ma anco il varco alle nostre armi è chiuso,
   ben ch'ai segni di vita
   aspiri l'uomo e la sua speme affissi.
   Non è non è smarrita
   la forza degli abissi
   per ordir a suo danno
   tradimento, rigor, forza ed inganno.
   Ed ecco, hor più d'ogni altro,
   il suo pensier
   rivolge Alessio ad onta pur di noi,
   al celeste sentiero,
   né de' congiunti suoi
   omai ritrarre il ponno
   i sospir con le lagrime interrotti,
   ché senza cibo i giorni, e senza sonno
   tragge intiere le notti.
   O se tal hora ei posa il corpo lasso,
   è sua morbida piuma un duro sasso.
   Ma s'altro oggi non son da quel ch'io soglio,
   rammollirò quel core
   d'adamantino scoglio Io, d'ogni frode autore,
   spinto da fiero sdegno all'alta impresa,
   non trarrò neghittoso i giorni e l'hore,
   ma contra il duro petto,
   movendo aspra contesa,
   sotto mentito aspetto
   celerò così l'arti,
   che d'ogni frode adempirò le parti.

Continuando a cantare dietro all'Inferno, i sopra detti Demoni fanno una Moresca con i tizzoni che portano in mano.

   Sdegno horribile
   alla luce
   ne conduce.
   Su, su, terribile
   l'abisso s'armi.
   Alle pugne, alle stragi, all'armi, all'armi.
   S'hanno a prendere
   di mille alme
   liete palme.
   Già già d'offendere niun si risparmi.
   Alle pugne, alle stragi, all'armi, all'armi.
   L'ombre tuonino, frema il Lito di Cocito,
   sì, sì, risuonino
   sol fieri carmi.
   Alle pugne, alle stragi, all'armi, all'armi.


Fünfte Szene

Madre, Sposa, Nutrice, Marzio, Curzio.

La Madre e la Sposa di S. Alessio piangono l'assenza di lui, consolate invano dalla Nutrice, per consiglio della quale si volgono a pregare Dio, ché lo prosperi ovunque sia.

NUTRICE.

   Deh, raffrenate alquanto,
   omai dopo tant'anni,
   i vostri acerbi affanni.
   A che, senz'alcun pro,
   struggervi in pianto?
   Qual può sperar mercede
   il sempre lagrimar per chi nol vede?

SPOSA.

   Lasciate pur ch'io pianga,
   omai, nutrice,
   troppo misera sorte un petto preme,
   cui nelle doglie estreme
   pur lagrimar non lice.

MADRE.

   So ben anch'io che vane,
   o mai fedele,
   all'aure sorde, a' venti
   fuggono le querele.
   E so, che nei lamenti,
   oimè, possiamo solo
   l'una con l'altra accumulare il duolo.
   Ma se il non udire
   novella del mio figlio
   rinnova ciascun giorno il mio martire,
   come si può mai tranquillare il ciglio?
   La notte ancor, che del riposo è madre,
   si mostra a me, con larve e con portenti,
   torbida e tempestosa,
   horrida e spaventosa.
   E per mandarne in bando ogni conforto,
   o quante volte, o quante, agli occhi miei,
   offre, in ben mille modi atroci e rei,
   nel sonno Alessio, hor moribondo, hor morto?
   Così, la notte il giorno,
   mentre che molto bramo e nulla spero,
   m'affligge il falso, e non m'appaga il vero.

SPOSA.

   Riporti Apollo, o pur nasconda il lume,
   già le mie cure in me dormir non ponno,
   e mi sembran le piume
   spine pungenti ad involarmi il sonno,
   ond'io co' miei pensier miseri e lassi,
   con sospiri interrotti,
   vo misurando i passi
   delle tacite notti.

MARZIO.

   Hor la cagion conosco
   onde nasce ch'io dormo a tutte l'ore.
   Allor ch'il sonno in questa casa arriva,
   ognun lo scaccia fuori ed ei si mette
   a far sol contro me le sue vendette.

SPOSA.

   Amara, infida notte.
   all'afflitte mie luci,
   tenendo sempre il mio bel sole ascoso,
   le tenebre radduci.
   Perché teco non porti il riposo?

MADRE.

   Se tu sentissi, Alessio, i miei tormenti,
   so che pietà n'avresti.
   Perciò, dovunque or sei,
   in ciel, fra l'onde, o in terra,
   potrai de' dolor miei
   il numero mirar ch'ivi si serra,
   ché tanti son, quante tu puoi mirare
   stelle in ciel fronde in terra, arene in mare.

SPOSA.

   Perché privarmi, o Dio, degl'occhi tuoi?

MADRE.

   Come crudel abbandonar mi puoi?

SPOSA.

   Quanto, oh quanto fugace
   avesti, Alessio, il piè?

MADRE.

   Quanto, oh quanto fallace,
   fortuna, è la tua fé.

SPOSA.

   Teco sperai gioir, son senza te.

MADRE.

   Sperai d'esser felice, e piango oimè.

SPOSA.

   Interrotti desiri
   sconsolate dolcezze.

MADRE.

   Eterni miei martiri,
   mie funeste amarezze.

SPOSA E MADRE.

   Oh, de' mortali antiveder fallace,
   tant'il ben fugge più, quanto più piace.

CURZIO.

   Oimè, quel sospirar,
   quel pianger sempre,
   è un pessimo esercizio,
   ch'in esso il tempo, e l'opera si perde.
   Ti manda in precipizio,
   e in dieci giorni ti riduce al verde.

SPOSA.

   Io t'ho perduto, Alessio,
   e temo, ahi sorte, temo,
   ch'il nodo adamantino e forte,
   onde il mio cor già restò teco involto
   abbia l'acerba morte
   con empia man disciolto.

NUTRICE.

   Sian vani gl'auguri al core impressi,
   giova all'afflitta mente
   lo sperar sempre prosperi successi,
   perché il bene sperar non sempre è vano.

MADRE.

   Chi di mortal miseria il calle preme
   troppo ne va lontano
   dal sentier della speme.

NUTRICE.

   In sì grave dolor,
   voi, per l'amato pegno,
   siasi pur morto o vivo,
   al ciel volgete
   i vostri prieghi e'l core,
   che voleranno alle celesti sfere
   con ali di pietà vostre preghiere.

Coro di domestici d'Eufemiano. Discorrendo sopra la varietà de gli accidenti del mondo, ricorre alla Divina Pietà per aiuto.

   Dovunque stassi,
   dolce Gesù,
   d'Alessio i passi
   deh sorgi tu,
   ché sempre piegasi
   là dove pregasi
   tua gran virtù.

Ritornello. Seconda stanza.

   Se pellegrino
   errando va,
   piano il cammino
   tu per lui fa.
   Dovunque accolgasi,
   dovunque volgasi,
   trovi pietà.

Ritornello.

   S'all'onde, audace,
   commetta il piè,
   del mar la pace
   non cangi fé.
   Dei venti il fremito,
   dell'onde il gemito,
   fugga ond'egli è.
   Le vostre doglie
   il Cielo udì.
   Torni alle soglie
   ond'ei partì.
   Per lui s'accendino
   per lui risplendino
   sereni i dì.

CHORO a sei.

   Con miserabil sorte
   ogni mortale, ovunque muova il piede,
   rapida corre ad incontrar la morte,
   ch'ognor di nuove prede
   andar superba e trionfar si vede.

RITORNELLO, CHORO.

   Non è cittade o via
   così remota,
   ove d'altere spoglie
   su formidabil trono
   ella non sia.
   Né tra riposte soglie
   altri, celato, al suo furor si toglie.
   Non è loco sì cinto di larghi fossi,
   impenetrabil mura,
   che di morte al furor non resti vinto.
   Indi a ragion Natura
   fa ch'ogni loco all'huom è sepoltura.

CHORO a sei.

   Nel periglioso campo,
   in cui vive ciascun,
   sol quell'aita
   ch'al Ciel si chiede
   incontro a morte è scampo.
   Dunque l'alta infinita
   pietà l'ascolti
   e serbi Alessio in vita.


Sechste Szene

Per introduzione di un ballo.

Trasferitosi Curzio per diporto alle ville del suo Padrone, va pensando di prepararvi alcuni trattenimenti, per servirsene poi a scherno del Pellegrino; il disegno di condurvi i Rustici di quelle selve porge occasione di una danza piacevole.

Si muta la scena in una selva.

   La più bella che sia,
   è la profession d'andare a spasso.
   A me piace ben tanto in fede mia,
   che quando trovo il tempo, nol lasso.
   Ond'è che spesso in queste selve amene
   vo' fuggendo la scuola,
   ché, quando io sono in Roma,
   non ho mai veramente hora di bene.
   A pena posso dire una parola,
   e bisogna, ch'io stia,
   mentre sono a servir la mia Padrona,
   addolorato per conversazione.
   Ma qui le cose in altro modo vanno,
   ch'io vado a caccia, e sempre, che ci sono,
   s'io non mi do bel tempo,
   sia mio danno.
   Hor che non saprei
   fare altro di buono,
   i Rustici vogl'io del mio padrone,
   ch'ordiscano una danza
   conforme a loro usanza,
   onde il Romeo, ch'è pazzo afflitto ed egro,
   diventi un pazzo allegro.
   Diman poi vo' condurlo in questi boschi,
   dove rider farollo a suo dispetto.
   Hor cominciate, amici,
   qualche gentil mutanza;
   e vi prometto,
   ogni volta che a casa
   mi verrete a vedere
   menarvi al fonte,
   e farvi dar da bere.

Ballo. Escono otto contadini vestiti all'uso di quei tempi, e si trattengono con un ballo composto di vari scherzi.

MARZIO.

   Già veggo, il tutto è lesto;
   diman col Pellegrin sarò qui presto.

Fine Atto primo


Zweiter Akt

Sinfonia innanzi all'atto secondo.


Erste Szene

Eufemiano, con imaginarsi la consolazione de' parenti d'Adrasto nel suo ritorno, piange la propria infelicità, per esser quasi senza speranza di rivedere il figliolo.

EUFEMIANO.

   O te felice, o genitor d'Adrasto,
   ch'oggi tra le tue soglie
   la bramata tua prole alfin s'accoglie,
   e rivolgendo il ciglio
   al generoso figlio
   gl'aspettati diletti alfin pur godi,
   io sol di pene estreme
   miserabile oggetto,
   privo d'ogni mia speme,
   solo riserbo alle miserie il petto.
   Lasso, ma che stupore,
   se mai tregua non sente il mio dolore?
   Quello, quello son io,
   che con empio destino
   son fatto all'Aventino
   esempio di tormento atroce e rio.
   Quello, quello son io.
   Dunque o mia pena acerba,
   o mia doglia infinita,
   toglietemi la vita.
   In sì lungo martire
   mi sia vita il morire.
   Dunque, o mia pena acerba,
   o mia doglia infinita,
   toglietemi la vita.


Zweite Szene

Accenna il Demonio d'haver ordito una trama, per la quale spera che il Santo sia costretto a scoprirsi ed a tornare alle delizie del secolo.

   Propizia arride al mio desir la sorte,
   ond'ho la trama agl'altrui danni ordita.
   D'Alessio ho la consorte
   persuasa alla fuga,
   e già le piante accinge
   alla partita,
   per ricercar il suo marito errante;
   ond'ei sarà, per ritenerla, astretto
   di palesarsi al fine.
   Né soffrirà, ben che sia duro il petto,
   ch'ella cerchi, vagando, altro confine.
   E se bene a' miei sforzi ancor non cede
   d'Alessio la costanza,
   che con novello esempio ogn'altra eccede,
   io già non più sento in me
   con l'ardimento vacillar la speranza.
   Tenterò nuovi assalti e nuova guerra
   ché combattuta Rocca alfin s'atterra.


Dritte Szene

Sposa in habito di pellegrina. Nutrice.

La sposa, risoluta di andare cercando per il mondo il perduto Alessio, comparisce in habito di pellegrina, e mentre tra sé discorre di tal pensiero, è osservata dalla Nutrice, che senza scoprirsi a lei, ne porta l'avviso alla Madre.

SPOSA.

   A Dio, Tebro, a Dio, colli,
   o Patria, a Dio.
   E voi, di questo albergo
   mura dilette, a Dio,
   ché pur sete dilette,
   quantunque entr'a voi solo
   sia nota la cagion del mio duolo.
   Bramai viver in voi, ma il ciel non volle,
   onde m'accingo homai per far partita,
   ché qui, senza il mio ben,
   senza il mio core,
   aspra pena è la vita.

NUTRICE.

   Incauta giovinetta,
   mal consigliata amante,
   al dipartir s'affretta.
   Ma poiché la sua fuga ho ben compresa,
   già non permetterò sì vana impresa.

SPOSA.

   Ma dove a me sia duce il mio dolore?
   Dove, l'amor, se l'uno e l'altro è cieco?
   Ah, dove poss'io teco
   trarre una volta, Alessio, i dì giocondi?
   Dove, ah dove sei, dove t'ascondi?
   A te rivolgo il piede.
   Non sprezzar le mie fiamme e l'amor mio,
   se poca è la beltà, molta è la fede.
   A me, crudele, o Dio,
   tu così mal rispondi?
   Dove, ah, dove sei,
   dove t'ascondi?
   Forse desii cangiasti,
   o volubile amante?
   O, qual fronda incostante,
   nuova beltà ti piacque, e la bramasti?
   E forse per tuo vanto hora a lei narri
   la mia fiamma schernita,
   la mia fede tradita,
   i miei dolor profondi?
   Dove, deh, dove sei,
   dove t'ascondi?

NUTRICE.

   Devo scoprirmi o no?
   No, ché possenti
   non sono i preghi miei
   a temperare i suoi desiri ardenti.
   Megl'è ch'io faccia noto il suo disegno
   a chi ponga ritegno al core, al piede.

SPOSA.

   Ah, gioventù fallace,
   spergiura è la tua fede.
   Misera, a chi mai
   più creder poss'io?
   Alessio fu mendace?
   Lassa, dove trascorre il dolor mio?
   Che parlo e che vaneggio?
   Doler del mio destino,
   Alessio mio,
   ma non di te mi deggio,
   ché dentr'al ciel Latino,
   là dove ogni virtù risplender suole,
   di virtù fosti, e d'innocenza un sole.
   Ma che più tardo?


Vierte Szene

Madre, Sposa, Nutrice, S. Alessio, Marzio e Curzio.

Tenta indarno la Madre d'impedire il disegno della Sposa: anzi, stimolata dall'esempio d'un'amor grande, si risolve d'imitarla, e di partirsi con Lei. S. Alessio, intesa tal novità, raccomandasi prima al divino aiuto, cerca con varie ragioni di ritenerle dal destinato cammino. La sposa, posta in molta ambiguità, e rinnovandosi in lei più che mai il dolore per l'assenza del marito, si vien meno.

NUTRICE.

   Affretta il piè, ché troppo
   nocerebbe l'indugio.
   Ecco già parte.

MADRE.

   Figlia, di queste luci a me più cara,
   deh, dinne a me, quai voglie
   ti fan cangiar le spoglie?
   Forse a me nuovi danni
   il ciel prepara
   con tua partenza amara;
   e vuol che resti a lagrimar sol io?

SPOSA.

   Sallo il Ciel, sallo Amore,
   che dall'amato albergo
   forza mi trae, cui contradir non posso.
   E dentro al cor commosso
   io sento sprone acuto,
   ch'il piede affretta;
   e forse il ciel mi spira,
   perch'io trovi il consorte,
   o la mia pur congiunga alla sua morte.
   No, no, più non potrei
   menarne qui tra' miei tormenti amari
   i giorni solitari.
   Ah, non sia ritenuto
   dal cercar il suo cor chi l'ha perduto.

S. ALESSIO.

   Che sento, o Ciel, che veggio?
   Ah non sia vero
   ch'errante ella piè muova.

MADRE.

   O di stabile amor ben degna prova.
   Non che riprovar possa il tuo pensiero,
   voglio seguirlo anch'io.
   Cangerò vesti, e teco
   ratta verrò
   dovunque volga il sole
   il luminoso aspetto,
   ch'a ricercar la sospirata prole
   non sia mai stanco il piede.

SPOSA.

   Ben son bastante io sola.
   Entro il mio petto
   ho tal valor, che compagnia non chiede.

MADRE.

   Con ragioni o con preghi
   di rimuovermi, o figlia,
   invan procuri.
   Se compagna al cammino
   esser mi neghi,
   precorrer mi vedrai.
   Andiamne homai,
   ch'a secoli futuri
   renderan forse questa età famosa
   amor di genitrice,
   amor di sposa.

NUTRICE.

   Misera me, che posso far, che deggio?
   Ogni consiglio in vano
   homai per ritenerle esser m'avveggio.
   Misero Eufemiano.
   Di qual ruina acerba
   nell'occaso degl'anni il Ciel ti serba?
   Deh s'impetrar può tanto,
   non dirò questo pianto,
   ma l'amor, ma la fede,
   ch'in me provaste,
   ah, ritenete alquanto
   vostro rapido piede,
   fin che sol pensiate
   ove v'adduce
   sconsigliato desire.

SPOSA E MADRE.

   A ritrovar Alessio,
   o per morire.

MARZIO.

   Alla prova le voglio:
   il terzo giorno so
   che faran ritorno.
   Credono che le strade in ogni loco
   sian lastricate e piane,
   come le vie romane.

CURZIO.

   Oh, quanti mali passi!
   Quanto v'è da salir,
   quanto da scendere.
   Vadan pur, senza invidia.
   Troppo la mia
   dalla lor mente è varia.
   Non mi curo per me di mutar aria.

S. ALESSIO.

   Hor non mi manchi il Ciel di sua virtude.
   Sì ch'io m'opponga a quel voler fallace,
   che dentro all'alme loro il desir chiude.
   Già non prendete,
   eccelse Donne, a sdegno,
   s'io di parlarvi indegno,
   hoggi mi scopro a favellarvi audace.
   Ché, se vostro disegno
   pur come dianzi intesi,
   è lungi andar dalla città di Marte,
   cercando altri paesi,
   io, che scorso del mondo ho si gran parte,
   ben posso come esperto
   darvi consiglio, e farvi il vero aperto.

NUTRICE.

   Ascoltate per Dio ciò, ch'ei favella,
   ché sovente esser suole espresso il vero
   in semplici parole.

SPOSA.

   Chiunque mi rappella
   dal sentier destinato, a sdegno il piglio,
   ché risoluto cor odia consiglio.

MADRE.

   Nelle pietose voci
   di umil garzone
   io provo al core
   un non so che d'insolito e soave.
   Ciò ch'ei n'accenna udir,
   deh, non sia grave.

CURZIO.

   Sì, sì ben è il sentirlo.
   Ch'è tuttavia buon'hora,
   né farà gran dimora.

MARZIO.

   E se ben fanno una fermata corta
   giungeranno stasera a Prima Porta.

S. ALESSIO.

   M'è noto il dolor vostro, e noto insieme
   m'è lo sperar, ch'a dipartirne invita.
   Ma se giusto è il dolor, vana è la speme;
   ché forse in parte incognita e romita
   si cela Alessio, e quanto più il cercate,
   più da lui vi scostate
   e forse sì cangiato è nel sembiante,
   ch'ancor se lo vedeste,
   nol riconoscereste.

SPOSA.

   Ciò non tem'io, ché dove alberga Amore,
   quando ciechi son gl'occhi, è Argo il core.

S. ALESSIO.

   Gli alpestri monti, e i sassi
   ritarderan sovente i molti passi.

MADRE.

   Animoso desire
   dona possanza
   e fa lieve il martire.

S. ALESSIO.

   Chi per lungo sentier errar dispone
   a ben mille perigli il petto espone.

SPOSA.

   A petto inerme e nudo
   la virtù rocca e l'innocenza è scudo.

S. ALESSIO.

   Ma pur ne vieta incognite contrade
   la legge d'honestade.

MADRE.

   In ogni loco è d'honestà ricetto
   un generoso petto.

S. ALESSIO.

   Dovunque Alessio il senta, o voi ritrovi,
   mai non sarà ch'il fuggir vostro approvi.

SPOSA.

   S'io lo voglio imitar, già non l'offendo.
   Nella scola di lui la fuga apprendo.
   Ma che parlo?
   Ah non sia ch'a suoi desiri
   per me si contradica.
   Io, sento ch'Alessio istesso
   ancor ch'a me lontano
   par che mi parli al core
   e che mi dica:
   Resta nel tuo tormento,
   resta, ch'a me non piace
   il tuo partir fugace.
   Dunque, rimango, ahi lassa,
   esempio d'aspra sorte,
   vilipesa consorte.
   E sol per non spiacerti a te non vegno.
   Ma se riman la salma,
   a cercarti vien l'alma,
   ond'al tremante piè manca il sostegno.
   già moro per Alessio,
   e già dal seno
   sen fugge l'alma
   e il viver mio vien meno.

NUTRICE.

   Ah più non si sostiene e resta esangue,
   e freddo gielo il suo vigore opprime.
   Pur le palpita il cor, languido e lento
   e la lingua dell'alma in fronte esprime
   con voci di pietade il suo tormento.

MADRE.

   O mio dolore insano,
   ben troppo lieve sei, se non m'uccidi.
   Accorrete, miei fidi,
   con le mediche cure a lei d'intorno,
   onde sen rieda ai languid'occhi il giorno.

MARZIO.

   Misero Marzio, oimè tu sei spedito.
   Che ti giova a costei l'haver servito,
   ché, s'ella muor senza testare avanti,
   non ti lascia nemmeno un par di guanti?


Fünfte Szene

S. Alessio.

S. Alessio per il travaglio miserabile dei parenti, agitato da diversi pensieri, considera tra se medesimo se deve manifestarsi.

Alessio, che farai?

   Userai crudeltade
   a chi come ben sai,
   vuol il Ciel, vuol il mondo,
   che tu mostri pietade?
   Che fo? devo scoprirmi,
   o pur m'ascondo?
   Ah, silenzio crudele,
   cagion d'aspre querele.
   Io già men volo a far palese il tutto.
   Fermo che sol chi giunge all'ultime hore
   con immutabil core
   delle fatiche sue raccoglie il frutto.
   Tu, che tanto hai sofferto,
   del ciel non curi più l'alta mercede?
   Tu, che per Dio cercar, fuggisti il mondo,
   hor per sentiero incerto
   volgi di nuovo (ah folle)
   al mondo il piede?
   Chi sì mal ti consiglia?
   Ah, segui, segui il tuo cammin primiero.
   Ma pur forza ripiglia
   dolorosa pietà nel core impressa,
   che mi richiama, ovunque il pensier muovo.
   Pietade, homai deh cessa
   di tormentarmi il seno.
   Ah, quale io provo
   nel teatro del cor dura battaglia.
   O Dio clemente,
   il tuo favor mi vaglia.
   Tu la palma a me serba,
   ch'io già per me non basto
   a sì fiero contrasto.
   Né l'alma ho di diamante,
   che veder possa in aspra doglia acerba
   e la Madre e la sposa a me davante.
   Ma chi sarà costui,
   che con luci serene
   maestoso in sembiante a me ne viene?


Sechste Szene

S. Alessio, Demonio in forma di Eremita.

In questa varietà di pensieri viene incontrato dal Demonio, il quale sotto habito di vecchio Eremita procura con diverse ragioni d'indurre il Santo a scoprirsi a' parenti. Egli però restando più confuso che persuaso, non lascia di dubitare che sia illusione dell'inferno, onde chiede a Dio che in tanto bisogno non l'abbandoni.

DEMONIO.

   Humil servo, ed indegni
   del Ciel son io,
   che da' riposti orrori
   di lontane pendici
   erme sì ma felici,
   sol per giovarti, Alessio, a te ne vegno.

S. ALESSIO.

   Qual mia ventura, o quale,
   Dio di somma pietade,
   da' solitari chiostri
   pur'oggi agl'occhi miei fa che ti mostri?

DEMONIO.

   Dio messagger mi manda.
   Io la sua mente, Alessio, a te rivelo
   perché di folle zelo
   ripieno il core ardente;
   per Dio cercar da Dio ne vai lontano,
   onde tu soffri e t'affatichi invano.
   Poiché, mentre dolente
   la consorte abbandoni, a lui non piaci.
   E qual legge t'insegna aspro e crudele
   con promesse fallaci
   ingannar nobil Donna a te fedele?
   E qual torbida cura
   della mente il seren così t'oscura,
   che si vaga consorte,
   mentre per te si duole,
   tu, tiranno crudele,
   condanni a morte?
   Non l'approva la terra, il Ciel nol vuole,
   l'abborisce natura.
   Dunque, colei per te sospira e piange,
   e tu puoi dar soccorso e dare il nieghi?
   Per te lacera il seno, e il crin si frange,
   e tu, spietato, il miri, e non ti pieghi?
   E senso hai di pietade?
   E spirto in te s'accoglie
   di mansuete voglie
   come di Dio la legge impera e vuole?
   Ma se ogni altra ragion vana a te pare,
   volgi il pensier alla diletta prole
   che con sembianze a te gradite e care
   se nol ricusi, in breve
   nascer di te pur deve.
   Fingiti intorno, Alessio, i dolci figli,
   e dalle voci lor prendi i consigli.
   Torna, deh torna alla tua sposa amante,
   porta alla cara Madre homai riposo;
   rendi te stesso al genitor doglioso.
   Frena il desir errante,
   ché suol vana costanza
   sol di perfidia aver nome e sembianza.
   E saggio è quello, in cui,
   vinto il proprio voler, cede all'altrui.
   Credi, vanne, obbedisci,
   vago degl'antri foschi.
   Ti lascio in tanto,
   e me ne torno a i boschi.

S. ALESSIO.

   Attonito, e confuso
   rimango a questi detti,
   né par, ch'ad obbedirlo
   il cor m'affretti,
   temendo dall'Inferno esser deluso;
   ch'ad ogni passo ordisce un nuovo inganno
   degli abissi il tiranno.
   Dunque, a me porgi aita
   ... eterna fede
   con pietade infinita
   doni stabil soccorso a chi lo chiede.

DEMONIO.

   Ahi, che di qui mi scaccia
   con poderosa mano
   scendendo dalle stelle
   angelo sovrano,
   e col suo lume ogni mia speme agghiaccia.
   Homai qui di fermarmi a lui d'appresso
   dal Ciel non m'è permesso.


Siebte Szene

Angelo, S. Alessio.

Apparendogli un Angelo, l'assicura che quello Eremita era il Demonio, e che le ragioni da lui addotte devono disprezzarsi da S. Alessio, che con particolare ispirazione è chiamato da Dio per una strada piutosto ammirabile, che imitabile. Gli rivela la vicina sua morte e la grandezza del premio preparatogli in Cielo. E l'esorta ad aspettare quel passaggio con animo intrepido. Dal che confortato, il Santo invita la morte, e va meditando la tranquillità che in essa ritrovano i giusti.

Viene l'Angelo volando dal Cielo.

ANGELO.

   Alessio, Alessio, a me rivolgi il guardo.
   Colui ch'alla tua sposa hor ti rappella
   con sembiante bugiardo,
   è l'avversario antico,
   implacabil nemico.
   Per sentier non usato Iddio t'appella,
   ché non soggiace a comun legge il giusto.
   E sia ch'il tuo desire
   raro altro segua e che ciascun l'ammiri.
   Quella palma sovrana,
   che a te destina il Ciel (prendi conforto),
   da te non è lontana.
   Celeste Messaggiero,
   d'alta letizia a te novelle apporto.
   All'immortale impero
   ti chiama alto decreto.
   Vieni, Alessio, pur lieto,
   e vedrai come alfin fruttano i semi
   delle lagrime in Ciel corone e premi.

S. ALESSIO.

   Riverente t'inchino, Angel di luce.
   Ecco pur giunta è l'hora
   che si chiuda in gioir lieto tormento.
   Ecco che fuor di torbide procelle
   colà sopra le stelle
   pur vedrò senza occaso il mio contento.
   Grazie ti rendo, o Dio,
   e provo ch'a ciascuno
   giunge favor del Ciel sempre opportuno.
   Ma quando, d'ogni miseria in bando,
   che l'alma voli al Ciel,
   quando ciò, quando?

ANGELO.

   Breve sarà l'indugio.
   Prendi ristoro e speme.
   E giunto all'hore estreme,
   non paventar di morte il varco ombroso
   ché a chi pene soffrì, morte è riposo.
   Questa, all'alme più fide,
   onde salgon veloci
   alle rote immortali,
   gran Ministro del Cielo impenna l'ali.
   Questa da un mar di pene
   disserra il varco
   all'infinito bene.
   Su, dunque, hor che s'appressa,
   per te ritrar dalla mortal prigione
   di gioia sii, non di spavento impresso.
   Lieto l'attendi, ed ella,
   tra palme, e tra corone
   perché trionfi il tuo valor superno,
   ti farà scorta al Campidoglio eterno.

S. ALESSIO.

   O Morte gradita,
   ti bramo, ti aspetto.
   dal duolo al diletto
   tuo calle n'invita.
   O morte, o morte,
   o morte gradita,
   dal carcere humano
   tu sola fai piano
   il varco alla vita.
   O morte soave,
   de' giusti conforto,
   tu guidi nel porto
   d'ogni alma la nave,
   o morte soave,
   il viver secondo
   tu n'apri nel mondo,
   con gelida chiave,
   o morte soave.

Alla fine della scena il velo sparisce.


Achte Szene

Demonio e Marzio.

Ritorna il Demonio, risoluto di fare ogni sforzo per superare Alessio nel breve spazio che gli rimane di vita. È sopraggiunto da Marzio il quale, credendolo un Eremita e volendo burlarlo come era solito fare con Alessio entra seco in discorso. Adiratosi con lui, procura di ritenerlo, ma viene in diversi modi schernito dal Demonio.

DEMONIO.

   Già con desir costante
   alla sua morte Alessio il cor dispone.
   Nell'ultima tenzone
   dunque non resti scemo
   d'arte, o di forza il mio disegno audace,
   però che un'alma in fino a punto estremo
   ai perigli soggiace.
   Ah, se nel franger del corporeo velo
   in questo irreparabile momento
   da cui dipende eternità di pene,
   colui che bramai tanto,
   rapir potessi eternamente al Cielo
   oh, che chiaro trionfo, oh, che gran vanto.

MARZIO. Non so quel che d'intorno in rozzo manto

   qui se ne stia facendo un Eremita.
   Fors'hai la via smarrita?

DEMONIO.

   Ben altra volta, ohimè, smarrii la strada.
   Ma qui so molto ben, dove io mi vada.

MARZIO.

   Per venir di lontano,
   lasci la casa abbandonata e sola?

DEMONIO.

   Anzi, ch'in mia magione è tanta gente,
   che par quasi infinita.

MARZIO.

   E come vi si vive?

DEMONIO.

   Allegramente.
   Chi sa, tu ne potresti far la prova.

MARZIO.

   Non mi piace l'usanza.
   Io, perché di cantar ogn'hor son vago,
   colà, per quelle selve ombrose, e spesse,
   non vorrei, che il catarro m'offendesse.

DEMONIO.

   Non dubitar di questo,
   ché subito una stanza ti darò,
   la più calda che vi sia.

MARZIO.

   Io ti ringrazio; è troppa cortesia.
   Tornatene pur solo
   alle selve lontane.
   E se cerchi limosina agl'alberghi
   aspetta qui, ch'io porterò del pane.

DEMONIO.

   Fame non sento io no, più tosto ho sete;
   e sento addosso un caldo che m'abbrugia.

MARZIO.

   E perché non bevete?
   Non havete del vino in questa fiasca?

DEMONIO.

   Lascia star
   ché ti farà mal gioco.

MARZIO.

   Ahi, ahi, mi scotta, ohimè, vecchio indiscreto.
   Perché vi tieni il foco,
   così chiuso, e segreto,
   ch'altri non lo discerne?
   Servono forse i fiaschi per lanterne?
   Ohimè, mi duole ancora.
   Mentre, il fuoco ascondendo, hor fai dimora
   qualch'inganno ti passa per la testa.
   Ma la gente sia presta
   a discoprirti, e io fermarti voglio.
   Ohimè, misero me,
   tutto mi doglio.
   A stringerlo mi mossi e strinsi il vento,
   ma pur non mi contento,
   se non mi torno prima a vendicare.
   Io ti terrò sì forte
   che non mi fuggirai.

Il Demonio essendo ritenuto da Marzio si trasforma in un Orso. Marzio, volendo abbracciar l'Eremita, cade per terra.

DEMONIO.

   Prima ch'io più t'offenda, lasciami andare
   ché te ne pentirai.
   Lasciami, che mi preme altra faccenda.

MARZIO.

   E che far mi potrai? fermati qui
   non ti partire, ahi, ahi, ahi, ahi, ahi.


Neunte Szene

Religione.

Comparisce la Religione per assistere al devoto transito d'Alessio, e, gloriandosi dell'opera di lui ormai giunto al premio meritato, invita il mondo a seguitare la Virtù. La Religione passa per l'aria in un carro cinto di nuvole.

   Io, di vera pietà Madre e Reina,
   su la spiaggia Latina
   crescer sino a le stelle
   veggo pur hoggi i miei trionfi alteri,
   poiché da le procelle
   omai pur giunge Alessio
   dove il Regno superno
   porge a' disagi altrui riposo eterno.
   Ei, qual novello Alcide,
   scorse vari sentieri.
   Ma pure il mondo il vide
   mostri domar più fieri,
   vero trionfator
   d'Averno, e Pluto.
   Onde è ragion che alfine
   del suo valor sia Campidoglio il Cielo.
   Anime peregrine,
   che solcate del mondo il mar fallace,
   ah, non volgete il corso
   dietro a scorta mendace
   di quel piacer, ch'è duolo.
   Io sola addito al cammin vostro il polo.
   Quei, che sospirano senza conforto
   alfin pur mirano
   là fra le stelle ai flutti loro il porto.
   Al mio cenno fedele
   ogni dubbio dilegui.
   Chi può seguir il sol, l'ombra non segua.
   Del gioir labile
   non prezzi il lampo
   chi brama stabile
   aver nel Cielo alla sua pace il campo.
   Da mille pene in terra
   un cor mai non ha tregua.
   Chi può seguir il sol, l'ombra non segua.


Zehnte Szene

Eufemiano, Adrasto, Nunzio.

Mentre Eufemiano si duole delle sue sventure in compagnia di Adrasto, sente avviso, come nella Chiesa maggiore si era udita una voce dal Cielo che richiamava alle stelle l'anima travagliata nel Mondo. Perciò rallegratosi, raccoglie che anch'esso potrebbe consolarsi una volta con il ritorno del Figlio; e che per qualsivoglia miseria non si deve mai perdere la speranza.

ADRASTO.

   Talor che men s'attende,
   pietoso il Cielo il suo favor comparte
   all'humane vicende.

EUFEMIANO.

   Ti parlo il vero, Adrasto:
   in ogni parte
   vedevo, oh, sì, delle speranze il seno
   ché l'alma, ognor tra mille dubbi avvolta,
   una voce ascoltar vorrebbe al meno,
   che mi dica una volta:
   È morto Alessio, il tuo figliuolo è morto.
   Ah, folle, che ragiono?
   Viva pur, viva il figlio,
   lunge d'ogni periglio.

ADRASTO.

   La lunga etade insegna
   porre il freno alla tigre aspra, e feroce
   che per natia fierezza i lacci sdegna
   ma non già porre il freno al duolo atroce.
   Quindi non è stupore
   se d'insanabil piaga
   mostra ognor nuovi segni il dolore.
   Ma veggio, ch'anelante
   con festoso sembiante,
   con sollecito piè Sofronio arriva.
   Udiam ciò ch'ei ne porti.

NUNZIO.

   In ogni riva
   oggi risuona di letizia il Tebro.
   E voi pur qui con la sembianza mesta
   ve ne state in disparte,
   e forse intese
   non avete quai grazie il Ciel n'appresta.

ADRASTO.

   Deh, fanne, amico, il tutto a noi palese.

NUNZIO.

   Stava pur dianzi accolto
   dentro al Tempio maggiore il popol folto,
   quando dal Ciel s'udì placida e chiara
   risonar una voce in queste note:
   vengano a me coloro,
   ch'anelar fa delle fatiche il pondo,
   laggiù nel cieco mondo;
   ch'io gli darò ristoro.
   Resta ciascuno al sacro altare avante
   con le palpebre immote.
   Dall'attonite genti
   ciò che n'accenni il Ciel ben non s'intende.
   Ma pur ciascun ne prende
   di fortunati eventi
   non incerti presagi.
   E sperar lice
   ch'esser pur deva Roma ancor felice.

EUFEMIANO.

   Non abbandona il Cielo
   alma, ch'in lui confida,
   colma d'invitto zelo.
   Or, se celeste voce
   precorre il gioir nostro
   o fidi amici,
   rassereniamo il cor con lieti auspici.

Ritornello per l'aria di »Questo Egeo«.

Si replica il principio solamente alla prima stanza, e non alle altre tre.

   Questo Egeo ch'è stabil campo
   d'aspri nembi e di procelle
   delle stelle mira pur
   tal'hora il lampo,
   e propizio il Ciel sovviene,
   se fremente Austro s'avanza.
   Chi s'aggira in mar di pene,
   dia le vele alla speranza.

Ritornello.

Il choro sopra detto con canti, e un altro di giovani Romani con balli fanno festa per le nuove allegrezze della Città consolata.

   Il Ciel pietoso
   in suon giocondo
   promett'al mondo
   dolce riposo
   di grazie nuove.
   Un largo nembo
   a Roma in grembo
   oggi ne piove.

Ritornello strumentale. Questo ritornello si fa dopo ciascuna stanza del balletto.

   Sul carro adorno
   con vivi Rai
   non giunse mai
   così bel giorno.
   L'Alba e la sorte
   n'apron per noi
   dai lidi Eoi
   al dì le porte.

Ritornello.

   Con l'onde chiare
   oltre il costume,
   festoso il Fiume
   sen corre al mare.
   Muove il sentiero
   suoi molli argenti
   più di contenti
   che d'acque altero.
   Di queste mura
   cresce oggi il vanto,
   poiché son tanto
   al Ciel in cura.
   Dunque, in sembianza
   di grati affetti,
   il piè s'affretti
   a Liete danze.

Ritornello.

Fine Atto secondo


Dritter Akt

Sinfonia Atto terzo.


Erste Szene

Demoni, e Choro di Demoni.

Il Demonio, avendo in vano usato ogni opera contro il Santo, pieno di confusione precipita all'Inferno.

DEMONIO.

   Mal si resiste a fermo core, e male
   contra Dio si contende.
   Non può forza infernale
   di un'alma trionfar
   ch'il Ciel difende.
   Io, d'Alessio sperando aver la palma,
   che non fei, che non dissi
   perché de' ciechi abissi
   fosse trofeo quell'alma?
   E pur or veggio alfine
   ogni speranza mia dispersa al vento.
   Tornerò dunque ov'ogni lume è spento
   all'horrido confine.

CHORO DI DEMONI.

   Omai ritorno
   qui faccia il piè,
   ove del giorno
   luce non è.

DEMONIO.

Sotto i piedi del Demonio manca all'improvviso la terra, egli trabocca in una voragine di fuoco.

   Cedo fuggo, son vinto.
   Alessio, godi,
   che solo in danno mio tornan le frodi.

CHORO DI DEMONI.

   Qui dove loco
   non ha pietà,
   seggio di foco
   per te sarà.


Zweite Szene

Adrasto, Choro, Nunzio.

Adrasto, per aver veduto diverse genti incamminarsi alla casa d'Eufemiano va in compagnia di altri per certificarsi della ragione e, incontratosi in uno della stessa casa sente da lui la morte, la ricognizione di S. Alessio, e dal medesimo viene introdotto nella stanza dove giace il suo corpo.

ADRASTO.

   Dovunque io volgo il ciglio
   per la città tra il popolo commosso,
   di mirar parmi un tacito bisbiglio,
   né qual sia la cagion intender posso.

CHORO.

   S'ode d'intorno tutto
   risonar l'Aventino
   di tristezza e di lutto.
   Qual sia, ch'oggi ne turbi empio destino?

NUNZIO.

   Rifugge il piè dal lagrimoso albergo,
   perché non soffre il core
   omai di rimirar tanto dolore.
   Forse ancor tu ne vieni, amico Adrasto,
   perché a parte esser vuoi
   del più strano spettacolo e dolente,
   ch'esser mai possa oggetto agl'occhi tuoi.

ADRASTO.

   Sospesa è l'alma in tristi dubbi avvolta.
   Né ben anco raccoglio,
   amico, la cagion del tuo cordoglio.
   Deh, narra il tutto.

NUNZIO.

   Eccomi pronto, ascolta.
   Poiché s'udì dal Ciel suono celeste,
   che dalla mortal veste
   richiamava alle stelle
   chi per Dio s'affatica,
   s'udì nel tempio istesso
   novella voce amica
   in cotal suono espresso:
   d'Aufemiano il tetto
   l'umil servo n'accoglie a Dio diletto.
   A tai note Innocenzo, il gran Pastore
   che porta il crin di tre corone onusto,
   e seco Onorio, il glorioso Augusto,
   d'immobile stupore il core impresso
   vennero a questo albergo,
   e quivi in bassa stanza
   uom trovar da gel di morte oppresso
   che coperta tenea col manto istesso
   la pallida sembianza.

CHORO.

   Omai ciascuno attonito, smarrito,
   dalla tua bocca pende e chi sia questo
   cotanto nel morire al Ciel gradito?

NUNZIO.

   Narrerò a pieno il tutto. Udite il resto.
   Stretto avea nella man vergato foglio,
   che, da Innocenzio aperto
   ohimè, ben tosto certo
   ne fe' col nome suo l'altrui cordoglio.
   Questi era Alessio, il sospirato Alessio,
   che tant'anni presente,
   sott'abito mal noto,
   pianto fu come assente.
   Da sì nuovo accidente i cor delusi,
   perdon, fatti di sasso, e voce e moto.
   Per altro calle, attoniti e confusi,
   alfin tutti partiro
   et i parenti insieme
   qui restar soli alle doglianze estreme.

ADRASTO.

   Misero Padre, i casi tuoi sospiro,
   non d'Alessio la morte,
   ch'egli passò, morendo, a miglior sorte.

NUNZIO.

   Egli, poi ch'altro il suo dolor non puote,
   disfoga in pianti acerbi i suoi tormenti.
   E gl'occhi lassi a lagrimar intenti
   par che trovin conforto,
   in rileggendo le pietose note.
   Ma se ti trae pur voglia
   di veder la cagion di dolor tanto,
   seguimi in questa soglia,
   ond'esce un suono misto
   di gridi e di femineo pianto.


Dritte Szene

Eufemiano, Sposa, Madre, Marzio, Curzio, Adrasto e Choro d'Angeli dentro la scena.

I parenti acerbamente piangono la morte di Alessio. Si legge la lettera scritta da lui prima di morire.

Mutandosi la scena, appariscono le loggie e il giardino del Palazzo, nel quale, sotto alle scale, giace il corpo del Santo.

SPOSA, MADRE E EUFEMIANO.

   Ohimè, ch'un hora sola
   e lo rende e l'invola.
   Ciechi e miseri noi,
   s'una breve ora
   con ombre tenebrose
   mostra ciò che nascose
   di mille giorni il lume.
   Lassi noi, che, trovando il nostro bene,
   di lui perdiam la speme.

ADRASTO.

   Ahi, fato acerbo, e triste,
   dopo tant'anni io ti ritrovo a pena,
   Alessio e ti riveggio, e non son visto.
   Ma non si deve a te lamento, o pena,
   ché di somma virtù vestigi lasci,
   e se mori nel mondo, in Ciel rinasci.

EUFEMIANO.

   Dunque, dunque, è pur vero,
   che senza mai trovarti,
   due volte t'ho perduto?
   Ed è pur vero, e il provo
   che mio tu fosti allor, ch'io ti perdei,
   ed or ch'io ti ritrovo,
   ohimè, più mio non sei?

SPOSA.

   Che pensieri furo i tuoi, Alessio?
   e con quali lumi
   mirasti i lumi altrui,
   per te conversi in fiumi?

MADRE.

   Del mio fiero dolore
   rigido spettatore,
   tu pure, ohimè, distrutto,
   mirasti il viver mio col ciglio asciutto?

EUFEMIANO.

   Ho visto, per pietà de' miei martiri,
   risponder questi marmi ai tristi accenti.
   Ho visto a' miei sospiri
   spirar pietosi i venti.
   Tu solo, o figlio,
   all'or ch'in pianto sciolsi,
   i miei dolor funesti,
   tu solo, o figlio, avesti
   chiuse l'orecchie al pianto, ond'io mi dolsi.

MARZIO.

   O mia cieca follia,
   che trascorresti ad oltraggiar sovente
   un giusto, un innocente!
   Quanto fu grave, ohimè, la colpa mia.
   Deh pria ch'in me l'ira del Ciel discenda,
   pietà di me ti prenda,
   ché, se pentito or sono,
   dalla tua gran pietà spero il perdono.

CURZIO.

   Troppo, ohimè, troppo errai,
   e troppo ohimè, t'offesi.
   Ma tu condona i falli,
   alma clemente,
   poiché spirto celeste ira non sente.

SPOSA, MADRE, EUFEMIANO.

   O luci, voi ch'erraste
   col non conoscer mai l'amato pegno
   piangete il fallir vostro,
   ché di sua stirpe l'unico sostegno
   mirar più non potrete in questo chiostro.
   Ohimè ch'un'ora sola
   e lo rende e l'invola.

EUFEMIANO.

   Foglio, ch'in te racchiudi
   memoria che al mio cor sia sempre amara,
   pur tua vista m'è cara.
   E se capace è di conforto il duolo,
   in udir le tue note io mi consolo.
   Deh, leggi, amico, tu ciò ch'ei n'esprime.

Uno del coro legge la lettera.

   Alla Sposa, alla madre, al genitore.
   Dell'ultim'ore
   al desiato punto
   Alessio giunto,
   sofferenza e pace
   prega verace.

EUFEMIANO.

   Come, pace a me preghi?
   Se quando parti, o Figlio, e quando torni,
   con soverchio rigor pace mi nieghi?

UNO DEL CHORO.

   Prima ch'io chiuda i lumi
   in breve foglio
   noti far voglio
   i casi miei diversi,
   ciò che soffersi
   e quali in vario corso
   parti ho trascorso.
   Io già d'Essa alla remota sede
   rivolsi il piede,
   e d'adorar fui vago
   celeste imago,
   e poscia ad altre sponde
   varcai per l'onde.
   Ma da venti agitato, e sopra fatto,
   qua fui ritratto,
   e il genitor m'accoglie
   in queste soglie,
   ove gl'altrui lamenti
   fur miei tormenti.

EUFEMIANO.

   Oh, d'invitta fermezza esempio vero.
   tra miserie cotante,
   come potesti, o figlio, esser costante?

UNO DEL CHORO.

   Ora che l'alma in Ciel torna e riposa,
   o Madre, o sposa,
   o genitore, il duolo,
   sen fugga a volo,
   e il cor prenda conforto,
   ch'io giungo in porto.

SPOSA, MADRE, EUFEMIANO.

   Pianti, o doglie estreme,
   dal cui rigore ogn'altra doglia è vinta.
   Non speri più da quella bocca estinta
   udir d'Alessio i casi il cor che geme.


Vierte Szene

Choro d'Angeli, dentro alla scena. Eufemiano, Madre, Sposa.

Gli Angeli, accompagnando l'anima del Santo persuadono i parenti, che a torto, si dolgono nel Mondo per la morte di chi è ricevuto nel Cielo con tanto giubilo.

CHORO D'ANGELI.

   Lasciate il pianto,
   poi che dal ciel le schiere
   con lieto canto
   chiaman l'alma d'Alessio all'alte sfere,
   ed ei festoso,
   giunto al riposo,
   di stelle ha la corona e d'oro il manto;
   lasciate il pianto.

EUFEMIANO.

   O mia consorte, o figlia,
   se felice quell'alma
   dopo tanti tormenti
   gode corona e palma,
   non offuschiam col duolo i suoi contenti.

MADRE.

   Poich'a lasciare il pianto il ciel n'invita,
   habbia in me tregua il duolo.

SPOSA.

   Nel suo gioir il mio dolor consolo.


Fünfte Szene

Religione, Choro di Virtù, Choro d'Angeli.

Comparisce dalla casa del Santo la Religione e seco viene un choro di Virtù figurate per l'otto Beatitudini, quali furono mezzi ad Alessio per ottenere la gloria. La Religione rallegrandosi dell'acquisto fatto dal Cielo in S. Alessio gli destina il Tempio, che dagli antichi Romani fu dedicato a Ercole. Partesi poi la Religione, incamminandosi a consacrare il Tempio a S. Alessio e mentre dagli Angeli si continuano i canti, festeggiano le Virtù coi balli.

RELIGIONE.

   Vive Alessio, che morto al mondo visse,
   vive colui, che più d'Alcide invitto
   fu gli ampi abissi a superar potente.
   Hora vogl'io che della nobil alma
   si riponga la salma
   nel vicin Tempio,
   ove pietade insana
   d'Ercole venerar fece i trionfi.
   Vera pietà romana
   qui sciolga i preghi
   e quindi grazie attenda.
   Qui concorra devoto
   fin dal Istro remoto
   il popol fido.
   Giunger a questo lido
   veggio poscia Adalberto,
   quel, ch'all'Europa estrema
   con la voce e con l'opre
   n'additerà del Cielo il cammin certo.
   Ei ne' vicini chiostri
   il piè ritirerà.
   E mentre al Cielo il suo cammino intende
   lui piange e sospirerà,
   lui d'Alessio l'inulta fuga apprende.
   Hor voi felici ancelle
   che rendete soave anco il dolore,
   e in mezzo anco alle spine
   fate spuntar delle virtudi il fiore;
   voi che alle stelle alfine
   conduceste l'Eroe per erti calli
   hor con festosi balli
   gioite a' suoi trionfi,
   celebrate i suoi casi, e, poich'il cielo
   gradì d'Alessio il pianto,
   di letizia or s'oda il canto.

Spariscono alcune nuvole e vedesi nel Paradiso il Santo, circondato da molti Angeli, che con suoni e canti l'accompagnano. Liuti, tiorbe, arpe, 3 violini suonino sopra i soprani che cantano, e tutti stanno nelle nuvole.

CHORO D'ANGELI.

   Il Ciel vagheggia
   alma beata omai,
   e l'alta Reggia
   rimira, adorna di lucenti rai.
   Dei sommi giri
   godi i zaffiri
   ove senza accidente il sol lampeggia.

Balletto delle Virtù.

   Godi pur alma gradita
   presso i rai d'eterno Re,
   che nel Regno della vita
   avrà premio la tua Fé.
   Qui Fé durabile
   mai sempre stabile
   trova mercé.

Balletto delle Virtù.

   Tanto già fatto giocondo
   quanto il cor prima soffrì,
   che fuggendo il cieco mondo
   al ristoro in Ciel salì,
   dove risplendon lumi,
   che rendono eterno il dì.

Balletto delle Virtù.

   Delle stelle il nobil Trono
   vagheggiare oggi puoi tu,
   e provar quai seggi sono
   preparati a gran virtù.
   Per te festeggiano,
   per te lampeggiano
   le stelle or più.

Balletto delle Virtù.

   Felice Roma,
   che grazie impetrar puoi
   da Lui, ch'or noma
   festoso il Ciel in fra gli eletti Suoi.
   Con pregi tanti
   cresci i tuoi vanti,
   e di pietoso allor
   cingi la chioma,
   felice Roma.

Ende der Oper.